Perchè alcuni pazienti con attacchi di panico non riescono a guarire

PERCHÉ ALCUNI PAZIENTI CON ATTACCHI DI PANICO NON RIESCONO A GUARIRE?

Gran parte dei pazienti che arriva a chiedere la consulenza in studio racconta di anni e anni di ricerca di soluzioni e di aiuti che potessero risolvere il disturbo, tuttavia ogni tentativo è risultato vano.

Essi si sono sottoposti a terapie farmacologiche dopo aver completato i diversi accertamenti medici che hanno escluso un problema di orgine fisico-organica o a psicoterapie in virtù delle quali hanno assistito a deboli miglioramenti seguiti da nuove ricadute.

Ci chiediamo perché, dunque, si portano avanti il disturbo di panico per anni?

Innanzitutto occorre chiarire che si tratta di un disturbo che, se non curato, va alimentandosi e peggiorando, in quanto si strutturano quegli aspetti cognitivi che supportano il problema, ovvero le credenze e le valutazioni che il paziente ha sul disturbo, sulla sua condizione fisica, sulla possibilità di guarire e sulla sfiducia derivata dai tentativi falliti.

Più il tempo passa e più chi ne è vittima guarda al disturbo come qualcosa di grande, di importante, di violento e di invalidante: così facendo dà forza alla stabilizzazione del panico, mentre l’immagine di sé risulta compromessa perché comincia a considerarsi malato di una patologia incurabile.

Un disturbo che sfocia, in diversi casi, nell’agorafobia: accade quando alla condizione di ansia e alle crisi di panico subentra il timore di tutti gli spazi esterni, costringendo il paziente a relegarsi all’interno delle mura domestiche, avvertite come solo luogo sicuro e protetto.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale è il trattamento più importante e necessario per poter risolvere il problema in maniera definitiva.

È successo molte volte di incontrare dei pazienti che raccontano di essersi sottoposti ad una psicoterapia di questo tipo, ma nel momento in cui si richiedevano loro le conoscenze acquisite attraverso risposte riassuntive a domande pratiche sugli strumenti caratteristici e basilari del percorso (come il Modello ABC, il Laddering, gli errori cogntivi, ecc..), essi non sapevano rispondere.

La conclusione più scontata e logica che si può trarre è che il percorso psicoterapeutico seguito non aveva assolutamente un orientamento cognitivo-comportamentale.

Probabilmente ci si è sottoposti ad altri approcci psicoterapeutici oppure ci si è fermati ad un discorso di sostegno psicologico, ma ciò non è sufficiente per un trattamento adeguato del disturbo di panico.

Quest’ultimo non trae natura da un difetto organico, ma trova la sua crescita dall’aspetto cognitivo, cioè dai pensieri che il paziente fa: la sua focalizzazione sul sintomo, infatti, è quella che fa aumentare l’intensità della crisi stessa.

Il soggetto che ne è vittima, nel momento in cui avverte un piccolo spostamento della sua condizione fisica (come l’aumento del battito cardiaco o la sudorazione), inizia a centrare la sua completa attenzione sui sintomi e a pensare che da lì a poco potrebbe innescarsi un attacco di panico: quest’errore cognitivo non farà altro che ingigantire l’entità sintomatologica.

Un paziente che, pur sottoponendosi ad una psicoterapia, non ha affrontato con il suo psicoterapeuta le basi teoriche dell’intensificazione del sintomo, risulterà disarmato dinanzi ai piccoli spostamenti fisici che avvertirà, perché incapace di spiegare le cause da cui derivino e, pertanto, il panico non potrà essere gestito adeguatamente.

Se si facesse una rampa di scale, si arriverebbe agli ultimi gradini con il cuore che batte più forte a causa dello sforzo fisico: l’organo pulsa sangue più accelerato per compensare la mancanza di ossigeno ai muscoli e al cervello.

I pazienti raccontano di essersi ritrovati tantissime volte in situazioni di panico che non sono riusciti a comprendere e a gestire, anche mentre seguivano il percorso di psicoterapia e/o il trattamento farmacologico.

La vittima di panico che arriva in studio in molti casi ha una storia che dura da anni, con alle spalle richieste di consulenza da una psichiatra o da un neurologo, che ha prescritto farmaci che assume, ha assunto e continuerà ad assumere quotidianamente: tuttavia, pur essendo in trattamento farmacologico o addirittura sotto effetto di farmaco, la crisi si è presentata.

L’ansiolitico, infatti, è un farmaco che non permette di gestire l’ansia, bensì agisce in modo da controllare artificialmente/chimicamente i sintomi che l’accompagnano.

L’incoscienza dell’origine della crisi è un grave danno per la guarigione del paziente: la prima cosa da fare per curare il problema è comprendere la natura e la conformazione del panico e dei suoi attacchi.

Se tutti i disturbi d’ansia si instaurano sulla connotazione dell’incertezza, ossia sul non sapere del paziente cosa accadrà e cosa dovrà aspettarsi, il terapeuta deve acculturare il soggetto rispetto al disturbo di cui soffre, a partire dai 13 sintomi totali che lo caratterizzano, ma che generalmente non si presentano tutti assieme in una crisi.

Se il paziente apprende qual è il corredo sintomatologico distintivo del panico, diventa consapevole di ciò che deve aspettarsi: colui che non sa, anche dopo anni di convivenza col disturbo, resta disorientato e incapace di intendere le manifestazioni sintomatiche e la propria condizione.

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