Perchè il paziente con attacchi di panico ha paura di alcuni luoghi o situazioni

PERCHÉ IL PAZIENTE CON ATTACCHI DI PANICO HA PAURA DI ALCUNI LUOGHI O SITUAZIONI

Numerosi pazienti con disturbo di panico hanno paura di alcuni luoghi o situazioni precisi perché, raccontano durante le sedute, determinati spazi e circostanze sono reputati pericolosi rispetto alla possibilità di insorgenza della crisi.

Ad esempio, è frequente che raccontino di non riuscire ad entrare in un bar o in un ufficio perché considerati luoghi in cui sicuramente si scatenerà un attacco di panico a causa dell’esposizione a queste situazioni e, addirittura, il solo pensiero già produce malessere.

Il paziente con quest’ansia anticipatoria si preoccupa di ciò che gli potrebbe accadere se si trovasse in quel dato posto e si sentisse male: nel caso in cui fosse in una strada principale piuttosto trafficata, in un orario di punta, il suo pensiero andrebbe all’impossibilità di potersi allontanare velocemente per raggiungere un pronto soccorso, pertanto la decisione drastica sarebbe quella di evitare di compiere quel particolare tragitto optando, magari, per una via secondaria che gli consentirebbe la fuga in momenti di necessità.

Stesso discorso e medesimi presagi per altri luoghi come la banca, il supermercato, l’ufficio postale, il bar, ecc.: il meccanismo cognitivo che lo assale e lo tormenta è dato dall’eventuale difficoltà degli operatori di pronto soccorso a raggiungere quello spazio e a svolgere il loro servizio in maniera rapida ed efficace.

Si può notare come siano i pensieri a dominare e a immaginare gli sviluppi delle situazioni prima ancora che accadano: ciò che effettivamente nuoce al soggetto non è tanto l’episodio di panico in sé, quanto il durante fra una crisi ed un’altra, ossia il vivere costantemente con la mente impaurita rivolta al prossimo momento durante il quale insorgerà l’attacco.

Questo fatto nasce dalla costruzione personale di convinzioni per le quali il paziente diventa sensibile a certe situazioni, e determinati episodi gli si presentano come eventualità di crisi: da qui, la realizzazione di una vera e propria mappa mentale su cui sono riportati e distinti i luoghi accessibili e quelli da evitare sulla base della propria esperienza e per associazione delle esperienze nei luoghi in cui si è verificato il malessere.

Concretamente, se già in passato il paziente è stato vittima di una crisi mentre si trovava in banca, automaticamente s’innesca il meccanismo cognitivo secondo cui il malessere sopraggiungerà per certo in tutte le banche, come una legge costante e una regola fissa: questo è l’errore cognitivo della generalizzazione, che però la vittima non riesce a cogliere perché pone sullo stesso piano di pericolosità quel preciso istituto bancario in cui si è sentito male con tutti gli altri in generale.

È come fare di tutta l’erba un fascio: egli prende l’esperienza avuta in un’occasione e, per associazione/generalizzazione, l’accomuna a tutte le esperienze simili.

La conseguenza di questa credenza è che, a una certa, il paziente assocerà l’ufficio bancario a tutti gli uffici e, pertanto, comincerà a evitare anche altri spazi affini.

Nelle fasi iniziali, però, il grado di convinzione che possa sentirsi male non è molto alto, quindi, malgrado qualche dubbio, egli tenta di esporsi alla contingenza stessa o simile a quella in cui ha sperimentato la crisi, ma a causa della cosiddetta “profezia che si autoavvera” la riavverte di nuovo e conclude che quel luogo o quella situazione è per lui pericolosa, così che in futuro sarà preferibile l’evitamento di quei particolari luoghi.

Questa buona volontà di tentare uno sforzo coraggioso a proseguire una vita normale non è sufficiente perché l’esposizione allo spazio “pericoloso” è comunque investita di ansia, di paura e di dubbi, per cui già si predispone alla crisi, verificando alcuni dei sintomi caratteristici quali la sudorazione eccessiva, la sensazione di soffocamento, i brividi di freddo, il battito cardiaco alterato, ecc.

Allora il paziente interpreterà questo spostamento fisico come la prova del proprio malessere, cominciando a fantasticare sulle conseguenze della crisi: il bisogno di soccorsi, il timore che gli aiuti possano giungere in ritardo, la paura di svenire o addirittura di morire.

La resistenza a questi tormenti dura poco, finchè i sintomi appaiono sempre più insistenti e fastidiosi, così che anche il livello di paura si eleva esponenzialmente arrivando all’ipotesi di un infarto o un ictus, come raccontano in tanti.

A questo punto la reazione istintiva del soggetto è di allontanarsi da quel luogo e avvicinarsi il più possibile a casa: accorgendosi di sentirsi più tranquillo lungi dall’ufficio bancario (confermando l’esempio), inzierà a maturare nella sua credenza che effettivamente alcuni spazi o situazioni sono più a rischio rispetto all’eventualità di una crisi e che, dunque, il miglior modo per prevenirla è di fuggirne l’esposizione.

Evitare di esporsi, secondo il ragionamento del paziente con disturbo di panico, significa evitare la crisi.

La condotta di evitamento consiste nell’evitare l’esposizione a particolari luoghi o situazioni ritenuti potenzialmente pericolosi, dove “potenzialmente” va interpretata nell’accezione di possedere la potenza e la possibilità di risultare rischiose.

Questa condotta viene da lui considerata come la migliore e la più efficace per prevenire l’attacco critico e, illudendosi, comincia a strutturare l’idea di poter controllare in un certo modo e in una certa misura il panico.

Egli inizia a credere che la possibilità di gestire la paura sia depositata nella sua facoltà di scegliere a quali luoghi o situazioni esporsi.

Ma in realtà questa strategia è controproducente perché una condotta del genere non farà altro che alimentare le sue false convinzioni sul disturbo, conferendo a quest’ultimo delle caratteristiche quasi “magiche”, qualificandolo sempre più come qualcosa di grande, forte, importante e incurabile.

Parallelamente il paziente comincerà a reputarsi piccolo, inferiore e impotente dinanzi al disturbo.

Tutti questi sono errori di pensiero che lo indurranno inevitabilmente a un evitamento sempre più marcato degli spazi a rischio, aggravandolo col passare del tempo, perché a lungo andare avvertirà insicurezza anche in altri luoghi fino ad allora “sicuri”.

Se prima il rischio di attacco era circoscritto all’ufficio bancario o a quello postale, dopo succede – come dimostrano i casi clinici –  che si estenda a spazi diversi, come ad esempio il ristorante, il bar, il supermercato o in generale luoghi affollati da cui sarebbe complicato allontanarsi o da cui un’eventuale crisi di panico lo porrebbe in una condizione disagevole di attenzione focalizzata da parte della gente che potrebbe giudicarlo stupido, malato o matto.

Purtroppo in molti pazienti c’è quest’idea sbagliata della malattia in genere, perché il pensiero della vittima di attacchi di panico è distorto.

La distorsione cognitiva è una caratteristica del disturbo di panico e indica l’impossibilità da parte della vittima di riuscire a fermare con logica gli elementi peculiari del problema, come il sintomo o il proprio pensiero, e di cogliere il nesso esistente tra il proprio stato d’animo e l’insorgenza del corredo sintomatologico (con l’ansia, la paura e l’incertezza, il paziente richiama a sé il disturbo).

Egli si convince che certi luoghi o situazioni rappresentino la causa scatenante di una crisi e li rifugge, finchè s’innesca una sorta di reazione a catena di evitamenti che destabilizzano la normale quotidianità perché il campo di libertà e di autonomia del paziente si assottiglia progressivamente fino a chiudere del tutto i suoi spazi.

Può succedere, come abbiamo già accennato in precedenza, che cominci ad evitare le parti centrali e più frequentate della città, in alcuni orari precisi della giornata, per timore di restare bloccato e intrappolato nel traffico automobilistico che lo intralcerebbe, impedendogli di fuggire e di trovare rifugio dal pronto soccorso in caso di attacco di panico.

Tutti questi evitamenti sono correlati al legame associativo tra spazio e possibilità di crisi creato nella propria psiche dal paziente stesso: ne consegue che la costruzione della mappa dei luoghi sicuri, così facendo, lo costringerà col tempo a relegarsi nel solo posto avvertito come sicuro e protettivo, cioè la propria casa.

Un’altra peculiarità importante del paziente con disturbo di panico è l’individuazione di una o più figure di attaccamento che gli diano la sicurezza che, in caso di crisi, possano aiutarlo nel migliore dei modi: ne deriva che la frequentazione dei luoghi “rischiosi” sopraccitati diviene possibile a patto che ci sia l’accompagnamento e il sostegno di questa/e persona/e fidata/e.

Tutte queste persone scelte sono accomunate dal fatto di essere considerate valide e affidabili dal soggetto con disturbo di panico in contingenze di necessità.

Si consiglia il seguente video “Quali sono le cause degli attacchi di panico” (A cura del Dott. Pierpaolo Casto)

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