COME CURARE LA DEPRESSIONE
Per affrontare nel modo migliore e più completo possibile l’argomento tematico relativo alla cura della depressione, è opportuno effettuare una doppia premessa concettuale: esplicitare la definizione scientifica del disturbo e puntualizzare il significato di cura.
Lo stato depressivo, innanzitutto, viene classificato dalla letteratura scientifica mondiale come un disturbo dell’umore: nello specifico, il tono umorale della persona risulta compromesso in termini di alterazione al ribasso dello stesso. Ovvero, il soggetto non appare in grado di adeguare le proprie risposte emotive all’oggettività di piacere o di dispiacere di una circostanza: ne deriva una condizione anormale di reazione esclusivamente pessimistica e negativa verso tutto e tutti.
È bene precisare, inoltre, che non è possibile ascrivere l’insorgenza della patologia ad una causa esclusiva: esiste, infatti, una multifattorialità eziologica che raggruppa motivazioni genetico-familiari, biologiche, psicologiche e socio-ambientali.
Ora, per dare risposta al quesito dei pazienti che richiedono quale sia la modalità più corretta ed efficace per porre rimedio al problema, occorre chiarire innanzitutto il concetto di “cura”.
Ciò che ognuno di noi intende in riferimento a questo termine è naturalmente la risoluzione e la remissione definitiva di tutti i sintomi presentati dal disturbo e non semplicemente il loro tamponamento: la cura va intesa, pertanto, nel senso di remissione integrale e decisiva di tutti i sintomi che il paziente depresso percepisce e un decremento a lungo termine, fino all’annullamento totale, di tutte le espressioni fisiche di malessere che il soggetto lamenta, con l’obiettivo assolutamente conseguibile di riacquisire una vita serena e una quotidianità di qualità.
Per curare il disturbo è bene, dapprima, rivolgersi al proprio medico curante, il quale fornirà una prima spiegazione della sintomatologia lamentata dal paziente e, se lo riterrà opportuno, lo indirizzerà a uno specialista (neurologo, psichiatra, psicologo o psicoterapeuta, in genere).
Le principali forme di trattamento della patologia depressiva sono due: il trattamento farmacologico e il trattamento di psicoterapia.
Il primo si basa sulla prescrizione medica di psicofarmaci antidepressivi, costituiti da composti psicoattivi che, modificando la quantità di neurotrasmettitori nel cervello o in interazione con essi, stimolano la funzionalità cerebrale all’adattamento, scaturendo gli effetti antidepressivi.
In questo caso, occorre seguire minuziosamente la cura prescritta dal medico, nei modi e nei tempi prestabiliti. È utile sapere che gli psicofarmaci antidepressivi possono richiedere fino a 3-4 settimane prima di partire a fare effetto pertanto, se la somministrazione viene interrotta precocemente perché il paziente comincia a percepire dei miglioramenti, potrebbero determinare delle recidive più importanti.
Il trattamento farmacologico della patologia depressiva si attua in quattro differenti fasi: fasi acute 1 e 2 per intervenire sull’emergenza o sulla cura dell’episodio; fasi protratte 3 e 4 per agire sul mantenimento della remissione dei sintomi psicofisici e/o sulla prevenzione delle recidive.
Le prime due fasi mirano dapprima a identificare e verificare e poi a rimuovere i comportamenti e la sintomatologia depressivi. Le fasi 3 e 4, invece, nei successivi 4-6 mesi dopo la remissione del disturbo, sono atte a eludere possibili ricadute.
Motivo per cui, esplicate le quattro fasi, viene generalmente prescritto un percorso terapico di mantenimento per scansare l’eventualità di una nuova insorgenza del problema.
In linea generale, 6 persone su 10 guariscono con il primo farmaco antidepressivo prescritto, ma capita spesso di dover riadattare la cura farmacologica cambiando anche due o tre medicinali.
La reazione al farmaco è individuale e soggettiva di paziente in paziente: tant’è che, per questo, sono prodotte e distribuite diverse tipologie di psicofarmaci (nei casi più gravi vengono prescritti i triciclici, mentre in quelli più lievi gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, ossia l’ormone che regola il tono dell’umore).
Tra gli antidepressivi classici, si annoverano: bloccanti non selettivi della ricaptazione (Triciclici: Amintriptilina, Desitramina, Nortriptilina, Dotiepina); Inibitori irreversibili delle monoaminoossidasi (IMAO: Fenelzina, Tranilcipromina); Inibitori reversibili delle monoaminoossidasi (RIMA: Moclobemide, toloxatone); Bloccanti selettivi della ricaptazione di serotonina (SSRI: Fluoxetina, Fluvoxamina, Paroxetina, Sertralina, Citalopram); Bloccanti della ricaptazione della serotonina e noradrenalina (SNRI: Venlafaxina, Milnacipram); Bloccanti della ricaptazione della noradrenalina (NARI: Reboxotina).
Rientrano fra gli antidepressivi a meccanismo atipico: Mianserina, Maprotilina, Amineptina, Sulpiride, Levosulpiride, S-adenosil-metionina, Trazodone, Mirtazapina.
In circostanze di depressione ricorrente o di disturbo bipolare, vengono indicati i cosiddetti stabilizzatori dell’umore: sali di litio, acido valproico, carbamazepina. A questi, può capitare che venga associato il benzodiazepine come ansiolitico e induttore del sonno.
Dopo aver assunto anche fino a tre farmaci diversi, infatti, la percentuale di soggetti guariti si eleva sìfino al 95% circa.
Tuttavia, è bene avere chiaro il quadro degli effetti collaterali che l’assunzione di determinati medicinali potrebbe provocare, tra i quali: secchezza della bocca, disturbi visivi, stitichezza, vertigini, sonnolenza, variazioni del peso corporeo, insonnia, irrequietezza e mal di testa.
Ulteriori aspetti da tenere sotto monitaraggio sono la funzione urinaria, quella sessuale e quella cardiovascolare. L’intensità e l’entità di queste conseguenze indesiderate sono più importanti nei soggetti anziani.
Le conseguenze indesiderate riscontrabili in modo più usuale negli SSRI (Inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina) e negli SNRI (Inibitori della ricaptazione della serotonina-norepinefrina) sono: nausea, riduzione dell’appetito, tremori, disturbi del sonno. Si tratta complessivamente di effetti transitori, che appaiono in 10-15 su 100 pazienti in trattamento.
In alternativa e/o in associazione alla cura farmacologica della patologia depressiva, esiste un trattamento dallo specifico approccio psicologico: la terapia cognitivo-comportamentale.
È stata scientificamente provata, infatti, l’efficacia di quest’ultimo trattamento, che si configura come la risoluzione unica ed elettiva nei casi di sintomatologia depressiva lieve o moderata, risultando al contempo altrettanto potente se avviata in combinazione con l’assunzione degli psicofarmaci nei pazienti con patologie d’entità più grave e intensa.
Lo specialista, nel corso delle sedute, insegna al paziente le modalità corrette con cui riconoscere, identificare, selezionare e correggere quegli inganni mentali che gli producono malessere e stati d’animo negativi.
Diversamente dalla cura coi medicinali, infatti, questo trattamento non interviene direttamente sul sintomo fisico, ovvero non lo seda chimicamente come fanno i farmaci, in quanto esso rappresenta una conseguenza di qualcos’altro, ovvero dei pensieri, che sono la causa primaria da cui scaturiscono le manifestazioni del disturbo e su cui agisce la psicoterapia.
Lo psicoterapeuta, una volta compresa la storia personale del paziente, lo indirizzerà ad analizzare e ad autoanalizzarsi in merito ai pensieri torturanti che l’hanno costretto ad optare per una condotta di asocialità e di ruminazione mentale.
Le tecniche e gli strumenti, forniti dapprima per mezzo teorico e poi applicati nella pratica, consentiranno di conseguire la correzione e la ristrutturazione degli stati cognitivi disfunzionali e distorti posti in essere fino ad allora.
Sono errori disfunzionali e distorti perché rientrano nelle dodici categorie di meccanismi cognitivi in cui la mente umana può sbagliare.
Tali categorie sono: pensiero dicotomico, ipergeneralizzazione, astrazione selettiva, squalificazione del lato positivo, lettura del pensiero, riferimento al destino, catastrofizzazione, minimizzazione, ragionamento emotivo, doverizzazione, etichettamento, personalizzazione.
La soluzione che consente di prevenire di incappare in queste dodici categorie d’errore di pensiero è la ritrutturazione cognitiva, ovvero la conoscenza degli assurdi logici in cui la psiche umana può incappare e il loro riconoscimento concreto attraverso l’applicazione di esempi illustrativi ad essi relativi.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale, allo scopo di scartare l’eventualità e la vulnerabilità a delle recidive, mette a disposizione dei pazienti gli strumenti scientifici esatti per riequilibrare il modo di vivere e di ragionare le attività: cambiando i pensieri muterà anche lo spirito emotivo, che finalmente potrà riacquistare positività e ottimismo.
Per conseguire ciò, lo specialista si rivolge all’uso di specifici protocolli, come la terapia comportamentale razionale emotiva, la Schema-Therapy, il lavoro sul Benessere Psicologico e la Mindfulness.
Questo approccio terapeutico, che va a intervenire parallelamente sui pensieri e sui comportamenti del paziente (come si intuisce dal nome “cognitivo-comportamentale”), educa i pazienti alla rimozione dei meccanismi cognitivi e delle condotte di autolesionismo ed autosvalutazione.
Sviluppi clinici elaborati negli ultimi anni del secolo scorso hanno evidenziato come l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale stia acquisendo gradualmente una consistenza maggiore anche nelle forme depressive di entità moderata-grave.
È indubbiamente la cura elettiva nella guarigione degli adolescenti depressi, dal momento che è in grado di mutare radicalmente la visione della vita degli stessi, aumentando l’elaborazione di pensieri ragionevoli e riducendo disperazione, pensieri negativi e distorsioni cognitive.
Senza una terapia consona alla sua guarigione, la depressione può persistere in durata mediamente tra i 6 e 12 mesi, ma se episodica può risolversi nel giro di poche settimane o, al contrario, se particolarmente grave e cronica, giunge a oltrepassare i due anni nel 20% dei casi.
In quanto alle ricadute, il 50-65% dei pazienti ha, nel corso della vita, almeno tre episodi depressivi, mentre il 10% ne può essere vittima anche di dieci o più.
Soprattutto se non curata, e nei giovani particolarmente, la depressione può indurre a rifugiarsi nell’abuso di sostanze stupefacenti e di alcol, aggravando il quadro clinico.
Esiste, infine, un terzo trattamento per la cura depressiva: si tratta della terapia elettroconvulsiva (ECT), una procedura con cui vengono inviati impulsi di energia elettrica al cervello tramite due elettrodi, generalmente posizionati su ambo le tempie, mentre il paziente è in anestesia generale.
Gli psichiatri sostengono la raccomandazione dell’ECT nei casi di depressione maggiore di grave entità: ossia in quei pazienti che non hanno fornito reazioni efficaci tanto ai farmaci antidepressivi, quanto alla psicoterapia.
In caso di profonda emergenza, pertanto, questo trattamento può dare un effetto più veloce che non la terapia antidepressiva: è usuale in quelle circostanze estremamente complicate in cui il paziente si rifiuta di nutrirsi o di idratarsi, o quando il soggetto è intenzionato a togliersi la vita.
L’ECT, dunque, appare probabilmente più efficace e utile della terapia farmacologica per il fronteggiamento di uno stato depressivo a breve termine, anche se uno studio ha rilevato livelli di rimedio molto più sottili nella pratica di routine.
Se il trattamento elettroconvulsivo viene scelto come approccio unico, la percentuale che il paziente possa essere vittima di una ricaduta è particolarmente elevata (circa il 50%).
I primi segnali negativi proveniente dall’ECT comprendono la perdita di memoria a breve e lungo termine, il disorientamento e il mal di testa.
Benchè tali disturbi della memoria dopo ECT si risolvono generalmente entro un mese dalla manifestazione, questo trattamento è tuttora controverso, motivo per cui prosegue la discussione scientifica sulla sua efficacia e sulla sua sicurezza.
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